di Marilisa Modena

Porre domande che aprono orizzonti.
Invitare a riflettere sul “perché” delle cose.
Essere esploratori di pensieri insieme ai bambini.

Di fronte a un cielo pieno di nuvole, il bambino guarda in su e chiede:
“Perché le nuvole non cadono?”
Ecco, è in quel preciso istante che nasce la filosofia.
Ed è lì che l’atelierista si fa compagno di viaggio, non per rispondere, ma per rilanciare la meraviglia:
“E se potessimo toccarle, che forma avrebbero? Che suono farebbe una nuvola cadendo?”

L’atelierista è, prima di tutto, un coltivatore di domande.
Non offre verità preconfezionate, ma abita lo spazio dell’incertezza fertile, dove ogni “perché” è un sentiero da esplorare insieme. Come un filosofo antico, cammina accanto ai bambini lungo i sentieri del pensiero, raccogliendo intuizioni, ipotesi, immagini.

Non si tratta solo di stimolare il pensiero critico, ma di costruire con cura un ambiente in cui i pensieri possano germogliare. In atelier, un pezzetto di filo, una goccia d’acqua, una luce riflessa diventano materia filosofica.
“Perché l’acqua si muove in quel modo?”
“Come fa una linea a diventare una forma?”
“Chi decide che un oggetto è finito?”

Sono domande che sembrano semplici, ma che spalancano porte su mondi complessi. Sono esercizi di pensiero, allenamenti all’incanto, piccoli voli verso l’invisibile.

L’atelier è un luogo che accoglie il tempo lento della riflessione, lo spazio intimo del silenzio, il disordine generativo della ricerca. Qui, il pensiero non è lineare: si intreccia con il gesto, con il colore, con la materia.
Un bambino impasta l’argilla e dice: “Sto modellando la mia idea.”
Un altro soffia sulla carta e sussurra: “Così vola meglio il mio pensiero.”

Il filosofo-atelierista sa che il pensiero ha tanti linguaggi quanti sono i bambini. Sa che ogni creazione, anche la più piccola, è una dichiarazione di senso. E sa ascoltare non solo con le orecchie, ma con lo sguardo, con la pelle, con l’anima.

Porre domande è un atto di fiducia. Significa credere che ogni bambino possieda dentro di sé mondi da raccontare, visioni da condividere, prospettive mai esplorate.

Il filosofo-atelierista non guida, non insegna: invita.

Invita a interrogare le cose del mondo con occhi nuovi.

Invita a sbagliare, a dubitare, a riprovare.

Invita a costruire significati insieme, in una danza continua tra io e tu, tra materia e pensiero, tra fare e pensare.

Essere atelieristi-filosofi significa scegliere ogni giorno di non sapere tutto. Di restare aperti, curiosi, disposti a lasciarsi sorprendere.
Significa sedersi a terra con i bambini e guardare una formica che cammina.
Significa chiedere: “Cosa sogna una formica?”
E poi tacere, per ascoltare la risposta.

In questo modo, l’atelier diventa non solo uno spazio educativo, ma un luogo esistenziale. Un laboratorio di pensiero poetico, dove si impara che la conoscenza non è mai finita, ma è sempre in costruzione. E che ogni “perché” è il primo passo verso l’infinito.

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